Somalia – Il Paese oggi, fra Covid e memoria di martiri della carità
di Chiara Bottazzi, Caritas Italiana
Neanche le calde piogge monsoniche della stagione Der, scoraggiano in Somalia il Coronavirus. Il fango rende impraticabili le strade e si impasta nel cuore dei somali, insieme alle paure della diffusione del contagio.
I numeri dei positivi al virus continuano, infatti, a salire con costanza: i dati aggiornati al 19 ottobre 2020 della Word Health Organization parlano di 3.864 casi confermati.
A livello nazionale e internazionale sono state sollevate grandi preoccupazioni sull’attuale conteggio, che potrebbe dimostrarsi molto più alto, considerando che il totale delle infezioni non viene rilevato poiché sono sottoposte ai test solo le persone altamente sintomatiche.
Il Paese non ha attualmente la capacità di effettuare tamponi di massa. I laboratori attrezzati, ad oggi, per testare in sicurezza le infezioni da SARS-CoV-2, uno dei quali si trova nello Stato semi-autonomo del Puntland e un altro nella Regione separatista del Somaliland, si contano sulle dita di una mano. Il numero di test che questi laboratori possono eseguire è comunque molto limitato, secondo quanto riportato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) in Somalia.
Nei mesi scorsi il Paese del Corno d’Africa ha ricevuto 20.000 kit-test, 100.000 maschere facciali e 1.000 tute protettive e schermi facciali, che il Governo ha distribuito nei vari distretti.
Una grande parte della popolazione vive in spazi limitati, in insediamenti decrepiti concepiti per sfollati interni. Rimanere a casa non è un’opzione praticabile per la maggior parte dei lavoratori informali che hanno bisogno di uscire di casa ogni giorno, per poter accedere ad una minima fonte di reddito.
“Il lockdown è facile per i ricchi o per chi può lavorare da casa. Ma è terribile per chi, come me si guadagna da vivere uscendo. Il rischio è infatti doppio: o mi ammalo di Coronavirus o vedo la mia famiglia morire di fame” racconta Nuruddin, 50 anni, pastore “Vivo in una zona rurale dove le folle non sono certo presenti. Comunque, tutti i giorni vado al mercato di Mogadiscio per vendere il latte dei nostri cammelli e incontro tante persone; molti di loro mi si avvicinano anche se cerco di mantenere le distanze sociali. Entrando in contatto con tutta quella gente rischio di contrarre il virus e di infettare anche la mia famiglia. Non esiste un modo semplice per rimanere sani, mentre si cerca anche di portare a casi di che vivere.”
Le infrastrutture sanitarie del Paese sono state smantellate a causa di decenni di conflitti ed instabilità. Vi è una carenza di dispositivi di protezione individuale per il personale sanitario e le persone colpite dal virus sono profondamente stigmatizzate. Al tempo stesso, la percezione del Coronavirus, da parte della popolazione, cambia a seconda del sostrato sociale. In Somalia, come nel resto del mondo.
Se i funzionari governativi incoraggiano la popolazione alla frequente disinfezione delle mani ed a indossare le mascherine quando fanno la spesa o quando si frequentano aree sovrappopolate, tuttavia non si possono escludere le difficoltà che si incontrano: dalla mancanza nei mercati locali di presidi igienici, come sapone e gel disinfettanti, fino ad arrivare allo stigma nei confronti di coloro che cercano di praticare il distanziamento fisico per evitare i contagi.
“Indosso una mascherina sul viso ogni volta che esco. Ho notato che c’è una sorta di identificazione fra l’uso della mascherina e il virus: se la indossi, per tanta gente significa che sei infetto, ma questo non è vero!” spiega una giovane donna di Hargeisa “Quando cammino per le strade del centro, sono tanti gli uomini che mi additano e mi prendono in giro chiamandomi “Miss Corona”. Spesso alcuni di loro mi dicono: “Non ti fidi del tuo Creatore? Se sei destinata a morire, un giorno morirai. Pensi che quella maschera ti proteggerà dalla morte?”
La Somalia nel 2019 si attestava nelle posizioni più alte dell’Indice di rischio globale su INFORM GRI, la piattaforma che si occupa di misurare i livelli di rischio nelle crisi umanitarie, questo dato fotografa un Paese con la più bassa capacità di far fronte allo stress aggiuntivo provocato dalla pandemia.
Il problema diventa ancora più preoccupante nelle aree difficili da raggiungere, quelle sotto il controllo dei ribelli jihadisti sunniti al-Shabaab, in questi luoghi l’assistenza sanitaria umanitaria non è autorizzata ad accedere.
Negli ultimi mesi, inoltre, la formazione al-Shaabab, oltre ad aver intensificato gli attacchi, soprattutto contro le forze dell’Amisom – la Missione delle Nazioni Unite in Somalia – ha dato prova, ancora una volta, della sua incredibile versatilità, strumentalizzando anche l’epidemia di Coronavirus per allargare le proprie fila e fare proselitismo. I miliziani somali, infatti, hanno dichiarato che l’epidemia è diffusa “dalle forze dei crociati che hanno invaso il paese e dai paesi miscredenti che li supportano” e, inoltre, hanno definito l’infezione una punizione divina contro la Cina per il trattamento riservato alla minoranza musulmana uiguri e contro tutti coloro che perseguitano i musulmani nel mondo.
Messaggi pericolosissimi, soprattutto in un Paese, come la Somalia, dove il tasso di analfabetismo è tra i più alti al mondo, che rischiano di vanificare gli sforzi delle autorità somale per controllare la diffusione del virus. Se l’epidemia dovesse dilagare, a causa anche della retorica estremista di Al-Shabaab, il timore è che i jihadisti possano arrivare ad impedire qualsiasi intervento umanitario e la Nazione somala si troverebbe in uno stato di disperazione assoluta, stretta tra virus e terrorismo islamico. Uno scenario apocalittico senza vincitori, ma con un solo grande sconfitto: il popolo somalo.
Quella del Coronavirus è purtroppo la goccia che fa traboccare il vaso delle sventure contenute nei confini della Nazione somala, considerata uno Stato fallito; proprio per questo spesso dimenticato dall’opinione pubblica internazionale, poiché giudicato oramai irrecuperabile.
Uno stato, quello a guida Mogadiscio, che in epoca contemporanea non ha mai conosciuto la pace, frammentata nella miriade dei suoi clan, ferita dagli interessi dei signori della guerra e dalle violenze delle milizie jihadiste che, da anni, minano la stabilizzazione di un Governo centrale.
Dalla volontà di richiamare l’attenzione e di fare luce sulla complessa situazione somala, Caritas Italiana ha realizzato il dossier “Somalia, nazione a frammenti: crisi perenne di un popolo senza stato”, in uscita il 22 ottobre.
Una data significativa, che rimanda al 25esimo di un anniversario doloroso: l’assassinio di Graziella Fumagalli, medico e volontaria di Caritas Italiana, uccisa a Merka, nel Centro anti-tubercolosi da lei diretto. Nel ricordo di Graziella il dossier analizza la recente storia della Somalia e le implicazioni, le responsabilità, locali e internazionali che hanno decretato il fallimento di uno Stato, incapace di risollevarsi dalle sue ceneri, ma che a piccoli passi sta cercando una via verso quella pace, che manca da troppo tempo.
Attraverso le parole, viene data voce al ricordo di tanti testimoni che hanno donato letteralmente la vita per costruire il bene in una terra frammentata da inimicizie; testimoni che incarnano quanto ribadito nell’Enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti” che “i processi effettivi di una pace duratura sono anzitutto trasformazioni artigianali operate dai popoli, in cui ogni persona può essere un fermento efficace con il suo stile di vita quotidiana.”
Un dossier quindi per raccontare una storia complessa di un Paese tormentato; e per ricordare le donne e gli uomini che con la loro vita hanno testimoniato che una via per la pace è possibile. Anche in quei luoghi dove sembra che tutto sia perso.