Covid-19 e cambiamento climatico, emergenze di una crisi cronica originata dal paradigma tecnico
di Andrea Stocchiero, FOCSIV
Le emergenze causate dal COVID – 19 e dal cambiamento climatico non sono disgiunte. Queste hanno una radice comune e sono tra loro in relazione. Entrambe sono la conseguenza dell’intervento umano sull’ambiente, che ne stravolge gli equilibri.
La causa è unica, la crisi è unica, come ci ha indicato Papa Francesco con la Laudato Sì. Queste emergenze sono in realtà di carattere strutturale: una crisi cronica prodotta dal sistema economico e tecnologico in cui viviamo.
Il COVID – 19 è causato della zoonosi: dal passaggio del virus dal mondo animale all’uomo. Come ci ricorda l’Istituto Superiore di Sanità, circa il 75% delle malattie emergenti dell’uomo, riconosciute negli ultimi decenni, hanno un’origine zoonotica.
I passaggi dei virus sono cresciuti per l’aumentata promiscuità tra animali e uomo. L’uomo con le sue attività invade sempre di più gli spazi naturali. Il rapporto I padroni della Terra 2020 – FOCSIV ha messo in luce la relazione tra zoonosi ed accaparramento delle terre – land grabbing – che ha come conseguenza deforestazione, piantagioni monocolturali ed estrazioni di risorse naturali, che riducono la biodiversità creando maggiori condizioni per la zoonosi.
La questione non è nuova. La relazione dell’uomo con l’ambiente che lo circonda è storica. È soprattutto con l’avvento del capitalismo che la relazione si è trasformata in una crescente ed esplosiva antropizzazione della natura.
Ai primi dell’800 con la colonizzazione americana Henry David Thoreau scriveva, nel suo saggio “Camminare”, che “Ai giorni nostri quasi ogni cosiddetto miglioramento a cui l’uomo possa dar mano, come la costruzione di case e l’abbattimento di foreste e di alberi secolari, perverte in modo irrimediabile il paesaggio e lo rende sempre più addomesticato e banale. Ah se la gente cominciasse a bruciare le staccionate e lasciar vivere le foreste!”. E più avanti prosegue collegando l’arrembaggio alla natura con la crescita delle disuguaglianze: ”Ma verrà forse il giorno in cui questa terra sarà smembrata in parchi per così dire di svago. Di cui solo pochi godranno in modo limitato ed esclusivo, in cui i recinti saranno moltiplicati. E altre invenzioni respingeranno gli uomini sulla strada pubblica, e camminare sulla terra di Dio significherà attraversare senza permesso la terra di qualche gentiluomo.”
Cent’anni dopo altri filosofi hanno mostrato le conseguenze di un forte antropocentrismo nichilista e l’emersione di un paradigma tecnico senza fini e senso.
Galimberti, sulla scorta dell’analisi soprattutto di Nietzche e Heidegger, scrive in “Psiche e techne”, riecheggiando Thoreau, che “oggi è la città ad essersi estesa ai confini della terra, e la natura è ridotta a sua enclave, a ritaglio recintato entro le mura delle città. Allora la tecnica da strumento nelle mani dell’uomo per dominare la natura, diventa l’ambiente dell’uomo, ciò che lo circonda e lo costituisce secondo le regole di quella razionalità che, misurandosi su criteri della funzionalità e dell’efficienza, non esita a subordinare alle esigenze dell’apparato tecnico le stesse esigenze dell’uomo.” La natura e lo stesso uomo scompaiono nella loro essenza divenendo funzionali alla volontà della potenza della tecnica.
Papa Francesco nella Laudato Sì accusa il paradigma tecno-economico di esercitare “un dominio impressionante sull’insieme del genere umano e del mondo intero […] l’uomo moderno non è stato educato al retto uso della potenza […] gli mancano un’etica adeguatamente solida, una cultura e una spiritualità che realmente gli diano un limite e lo contengano entro un lucido dominio di sé.”
Di conseguenza il “paradigma omogeneo e unidimensionale” dello sviluppo “estrae tutto quanto è possibile […] sull’idea di una crescita infinita o illimitata […] supponendo la menzogna della disponibilità infinita dei beni del pianeta […] occorre riconoscere che i prodotti della tecnica non sono neutri, perché creano una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orientano le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati gruppi di potere.”
Il COVID – 19, in misura relativamente maggiore del cambiamento climatico, per l’emergenza imposta con il lockdown, sembrava avere rimesso in discussione questo paradigma, purtroppo poco e troppo superficialmente. La retorica del “mai più come prima” si è sciolta come neve al sole, lasciando il posto alla necessità della ripresa economica con nuovi piani di resilienza e transizione (PNRR), che sono forse insufficienti a trasformare realmente il paradigma tecnico.
Nel 2020, la pandemia con la riduzione dell’attività economica, denominata anche antropopausa, dai trasporti ad alcuni settori industriali, ha avuto effetti positivi sull’ambiente: le emissioni di gas serra e l’inquinamento dell’atmosfera sono diminuite. È stato calcolato che nella sola Cina vi è stata una riduzione delle emissioni di carbonio pari al 25% e del 50% di ossido nitrico, salvando 77 mila vite in due mesi.
D’altra parte, nonostante il COVID – 19, alcune attività sono continuate come o più di prima come, ad esempio, la deforestazione dell’Amazzonia cresciuta del 50%. La pandemia non è riuscita ad imporre una profonda riflessione sulla trasformazione del sistema.
Le polemiche sui vaccini e sui green pass dominano il dibattito e non ci consentono di guardare più in là, più avanti, dentro la crisi.
Le cronache di quest’estate e l’ultimo Rapporto dell’International Panel on Climate Change ci hanno riportato all’urgenza di agire per contrastare il cambiamento climatico. Questo documento scientifico ribadisce la responsabilità umana del cambiamento a causa delle emissioni di gas serra, che la pausa della pandemia non sta fermando.
Bisogna enfatizzare la questione della irreversibilità: una eventuale riduzione delle emissioni non va a diminuire quanto già accumulatosi nell’atmosfera. Il cambiamento climatico è già qui ed ora, e non può essere ridimensionato, possiamo solo scongiurare un ulteriore aumento della temperatura oltre 1,5 gradi centigradi se si agisce subito nel ridurre le emissioni.
Mentre ci stiamo assuefacendo alla presenza del COVID – 19, le continue emergenze delle ondate di calore e delle inondazioni, sembrano avere più effetto nell’imporre la questione della transizione ecologia. La ripresa economica non può riproporre gli stessi modelli di produzione e consumo, ma deve attuarsi con una loro trasformazione. Vi sono diverse analisi e critiche al piano nazionale di ripresa e resilienza, giudicato più o meno insufficiente. Come, ad esempio, la critica di Legambiente nel Documento-Legambiente-su-PNRR.pdf; l’analisi di Caritas Italiana – Contributo al PNRR: percorso di riflessione, analisi e proposte Caritas.
Una critica a quale ancora non si è data una risposta sufficiente è quella per cui abbiamo bisogno di una visione più articolata di medio e lungo periodo oltre il PNRR, occorre integrarlo nella nuova strategia per lo sviluppo sostenibile, che dovrebbe concludersi nel 2030, e nel piano per la decarbonizzazione al 2050 emanato dalla Commissione Europea nel luglio di quest’anno. Questa visione dovrebbe fondarsi su un grande dibattito pubblico sulla crisi del paradigma tecnico.
La transizione ecologica è un percorso urgente e di medio-lungo periodo. Un percorso che è economico e sociale. Alcuni ministri hanno enfatizzato come la transizione implichi costi sociali. Questa considerazione non dovrebbe essere usata per rallentare la trasformazione dei modelli di produzione e consumo, ma per accrescere la consapevolezza e definire un piano di transizione giusta che risponda ai costi sociali con misure preventive, di preparazione e accompagnamento al cambiamento.
Il piano di transizione deve essere sociale per scongiurare nuove povertà ed un aumento delle disuguaglianze. Disuguaglianze che possono crescere ancor di più a causa di un’altra transizione, quella digitale. Ben affrontate in Disuguaglianze algoritmiche – Chiudiamo la forbice
Le questioni si intrecciano, nel PNRR la transizione deve essere ecologica sì ed anche digitale, oltre che sociale. Priorità trasversali sono le donne, i giovani e il divario Nord-Sud. Tuttavia, sembra che il sociale sia considerato sempre e solo in termini di conseguenze e non come un “a priori” assieme alla questione ambientale e tecnica. Anche la questione ambientale viene interpretata in chiave tecnica: saranno le innovazioni verdi a trasformare l’economia. In fondo il paradigma della tecnica continua a dominare gli scenari di cambiamento.
Tutti questi problemi sono tanto più importanti nel caso dei paesi impoveriti, dove vi sono più impatti negativi del cambiamento climatico per la maggiore esposizione e vulnerabilità delle popolazioni locali e dove il COVID-19 sta colpendo di più. Secondo il monitoraggio dell’Università Johns Hopkins, la percentuale di morti sui casi accertati di COVID-19 è più alta in Paesi come lo Yemen (19%), il Perù (9%), il Messico (8%), il Sudan (7,5%) la Siria (7,4%) e a scendere altri paesi africani e latinoamericani, dove i sistemi sanitari sono particolarmente deboli anche a causa delle guerre locali.
Se si applicasse il principio delle responsabilità comuni, ma differenziate – secondo cui le responsabilità del cambiamento climatico sono di tutti i Paesi, ma sono differenti a seconda delle effettive emissioni di gas serra, più alte nei Paesi ricchi ed emergenti, minori nei Paesi impoveriti – il cambiamento tecno-economico dovrebbe avvenire innanzitutto nei Paesi maggiormente responsabili del cambiamento climatico, e in misura più rallentata nei paesi dove è più alta la povertà e la disuguaglianza.
Recentemente la dichiarazione del G20 sul clima e l’ambiente è stata criticata perché non vi sono state assunzioni di impegno sufficienti per ridurre le emissioni, soprattutto a causa della ritrosia di Paesi emergenti come la Cina e l’India. G20 Clima: fallito il vertice di Napoli a guida italiana (rinnovabili.it)
Questo in effetti è un problema, considerata la dimensione economica dei due Paesi, tuttavia occorre ricordare che il principio di responsabilità si dovrebbe fondare sull’analisi della produzione ed anche sul consumo di carbonio.
Continuano ad essere, soprattutto, i mercati dei Paesi ricchi quelli che domandano più merci prodotte emettendo gas serra. Merci che sono prodotte in casa, in parte, e che vengono importate anche dai Paesi emergenti. In sostanza delocalizziamo la produzione con emissione di gas serra in altri Paesi. I responsabili ultimi sono i consumatori dei mercati ricchi, che guidano la produzione a livello planetario distribuendola tra i Paesi a seconda delle convenienze.
Secondo l’Università di Oxford “Sulla base del consumo, i paesi ad alto reddito (Europa e Nord America in particolare) rappresentano una quota ancora maggiore delle emissioni globali (46% – quasi tre volte la loro quota di popolazione del 16%). […] Per regione geografica vediamo che le emissioni scambiate tendono a fluire dall’Asia al Nord America e all’Europa (la quota dell’Asia si riduce se aggiustata per il commercio, mentre la quota del Nord America e dell’Europa aumenta).”
Dunque “In termini di equità globale, la prosperità dei paesi sviluppati non solo è stata fondata su due secoli di emissioni di combustibili fossili, ma in alcuni casi viene ora mantenuta dalle emissioni prodotte nei paesi in via di sviluppo. Oltre all’opportunità di informare una politica climatica efficace, quindi, la contabilità delle emissioni basata sul consumo fornisce una base per argomenti etici per cui i paesi più sviluppati – in quanto principali beneficiari delle emissioni e con maggiore capacità di pagare – dovrebbero guidare lo sforzo globale di mitigazione.” (Davis e Caldera, Consumption-based accounting of CO2 emissions, 2010)
I piani di transizione dovrebbero essere più accelerati con importanti modifiche dei modelli di produzione e di consumo – di gas serra così come di suolo, acqua e risorse naturale essenziali per la vita – nei Paesi ricchi. Questo implicherebbe un cambiamento delle produzioni anche nei Paesi dai quali importiamo merci, che potrebbero ridurre la dipendenza dai nostri mercati, progredendo in un transizione che guarda di più alle proprie popolazioni e culture.
È essenziale la cooperazione ed indirizzare l’aiuto pubblico allo sviluppo a favore di modelli di produzione del Sud del mondo fondati ad esempio sull’agroecologia IT_I_Principi_dell_Agroecologia_CIDSE_2018.pdf L’impegno dello 0,7% del reddito nazionale lordo per l’aiuto allo sviluppo dovrebbe essere raggiunto su priorità ben stabilite e condivise con le comunità del Sud a partire dai loro modelli di trasformazione.
Da qui la necessità di affrontare la questione di fondo culturale e antropologica del paradigma di vita che vogliamo, per una maggiore consapevolezza e per cambiare veramente il nostro rapporto con la tecnica, di conseguenza tra uomo e natura.
Forse il cambio di paradigma può suscitare un confronto con i popoli del Sud del mondo? Con la cosmogonia indigena? Così come ci ha insegnato il dialogo della Chiesa con i popoli indigeni che ha portato alla Querida Amazonia? “Querida Amazonia”: Esortazione Apostolica post-sinodale al popolo di Dio e a tutte le persone di buona volontà (2 febbraio 2020) | Francesco (vatican.va)