Dacci oggi il nostro pane quotidiano. A un anno dalla dichiarazione della pandemia si aggrava la fragilità degli anziani, una generazione sempre più a rischio.
Ad un anno dalla dichiarazione, da parte dell’OMS, della pandemia, mentre in tutto il mondo si cerca di far fronte alle molteplici conseguenze, una di queste risulta drammaticamente confermata: il virus non solo ha colpito maggiormente gli anziani, ma li ha resi più fragili, sia fisicamente che psicologicamente.
Le restrizioni, più o meno drastiche, per contrastare il contagio hanno ridotto drammaticamente lo spazio vitale di chi è in età avanzata, con un impatto negativo sullo stato fisico, ma soprattutto sullo stato di fragilità psicologica e cognitiva di queste persone. L’isolamento domestico non ha consentito agli anziani neppure una minima attività fisica ed ha acuito in loro la percezione della perdita, il senso di paura per il futuro e quello di isolamento, costringendoli a rinunciare ai legami affettivi con i propri familiari.
Come registrato dalle Nazioni Unite il COVID – 19 colpisce di più le persone anziane, tanto da stimare che le persone oltre gli 80 anni si ammalino 5 volte di più delle altre età. Un dato del quale siamo ben consapevoli in Italia, dove l’età media dei pazienti deceduti e positivi a SARS-CoV-2 è di circa 81 anni ed è più alta di 30 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione. A pesare il maggior numero di patologie, che si sovrappongono andando avanti con gli anni.
Se nel mondo occidentale gli anziani soffrono, nei paesi più impoveriti numerose discriminazioni accentuano e peggiorano la loro condizione e gli effetti provocati dalla pandemia.
Molti di loro in questi paesi vivono in condizioni di marginalità dalla vita sociale ed economica. Solo il 20% ha una pensione, mentre gli altri devono continuare a lavorare esponendosi al rischio del contagio per ricavare redditi molto bassi da piccole attività artigianali o commerciali, messe ulteriormente in crisi dal virus.
Ci sono poi discriminazioni sanitarie, tanto più pesanti in quanto ledono gravemente diritti e dignità delle persone. Se, ad esempio, gli anziani sono anche disabili la loro condizione è ancora peggiore e gli effetti della pandemia le rende ancora più isolate. Un isolamento che, se da un lato le protegge dal contagio, dall’altro le condanna ad una solitudine con gravi conseguenze psicologiche. Di COVID si muore anche così, in modo indiretto.
Anche quando gli anziani sono relativamente autosufficienti, possono comunque vivere situazioni di difficoltà se vivono in villaggi e città dove il servizio sanitario è carente o addirittura assente e spesso diventa un problema anche il semplice prendere un mezzo di trasporto per raggiungere punti sanitari distanti molti chilometri dal luogo di residenza.
Senza contare poi che spesso le persone più anziane, soggette ad altre malattie, non vengono curate proprio a causa dell’emergenza COVID che assorbe le poche risorse sanitarie esistenti. Tuttavia, la discriminazione più grave e inumana avviene quando la carenza dei servizi sanitari determina la scelta di dare cure e terapie ai più giovani, alle persone produttive e che hanno ancora un futuro da vivere, piuttosto che agli anziani.
Come si vede l’impatto del virus sugli anziani è particolarmente grave e dipende da un intreccio di diverse cause, condizioni e situazioni, di tipo sociale, economico e istituzionale. Il COVID ancora una volta mette in luce le cause strutturali che sono alla base delle discriminazioni e dell’iniquità sociale.
Emerge in particolare l’importanza di quella che Papa Francesco chiama “cultura della cura” per debellare la cultura dell’indifferenza, dello scarto e dello scontro.
“Non cediamo – esorta il Papa – alla tentazione di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli, non abituiamoci a voltare lo sguardo, ma impegniamoci ogni giorno concretamente per «formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri».
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