Donne che costruiscono, e ricostruiscono

Aisha viene da un villaggio del Sud della Siria. Parte della sua famiglia vive in Libano in un campo rifugiati, mentre un’altra è morta in guerra e pochi altri sono rimasti nel villaggio d’origine siriano. È arrivata in Turchia con suo marito, non le era rimasto nessun altro se non lui. Si sono fermati a Gaziantep, una città vicina al confine siriano, mentre alcuni parenti, che come lei erano arrivati lì, sono stati ricollocati in altre regioni e sono diventati irraggiungibili.
Non è un destino isolato. La marea umana di persone fuggita dalla Siria in fiamme – un pensiero fastidioso che nella ‘fortezza Europa’ si è cercato in ogni modo di evitare – è costituita per il 46% da donne, parte del: 1,7 milioni di persone che vivono in un limbo in attesa di futuro imprevedibile. Vivere in un Paese che accetta la propria presenza solo a causa delle generosissime prebende europee, persone che non sanno se e quando potranno ritornare nelle loro case, forse oggi distrutte; persone di tutte le estrazioni sociali, per le quali la barriera linguistica è uno dei principali ostacoli e con legami comunitari e familiari recisi ci si trova a dover ricostruire vite e relazioni, ad allevare i figli nella speranza di riuscire a costruirgli un futuro concreto.
Proprio le donne sentono la responsabilità diretta dei figli, ma la vita da rifugiate rende difficile ogni accesso a diritti e servizi, anche quelli più elementari. Secondo una ricerca delle Nazioni Unite condotta tra le donne rifugiate siriane in Turchia: il 73% delle intervistate non sapeva dove cercare assistenza per le violenze o molestie subite; il 74% non aveva idea di dove cercare assistenza per i propri figli; il 59% non conosceva l’esistenza di servizi di supporto psico-sociale mentre il 57% era a conoscenza dei servizi di assistenza all’infanzia. Infine, solo il 15% delle donne lavorava in attività generatrici di reddito. Dipendere per ogni cosa, non è una sensazione positiva.
Come Aisha, proprio a Gaziantep un gruppo di donne siriane sta cercando di sostenere il reddito familiare ed anche a sviluppare legami e solidarietà, grazie ad una iniziativa di Caritas Turchia. Le donne più esperte, una decina, hanno dapprima insegnato alle altre con uno scambio tra pari, mentre poi è iniziata la produzione vera e propria. Ognuna di loro lavora a casa o a piccoli gruppetti ed una volta a settimana si ritrovano insieme nel confortevole salotto, in tre città diverse, di ciascuna delle tre coordinatrici.
Aisha che è l’ultima arrivata, rimaneva spesso da sola, mentre il marito usciva ogni mattina per cercare lavoro nell’edilizia, come manovale. È stata coinvolta da un piccolo gruppo di donne, non un semplice luogo di lavoro, ma piuttosto uno spazio protetto, di auto mutuo aiuto. Di questo gruppo fanno parte anche Hasna che è vedova e Faiza, del quale il marito è malato. Lei è entrata in contatto con la Caritas grazie al Centro di ascolto diocesano, cercava cibo, aiuti scolastici e sostegno per l’affitto. Insieme ad un sempre insufficiente aiuto materiale, le è stato proposto questo progetto.
“Da quando mio marito è malato non abbiamo più soldi, lui non va più a lavorare. Riusciamo a vivere solo di quello che mi offrono le organizzazioni umanitarie. Però con quello che guadagno con il lavoro a maglia posso fare la spesa da sola. Certo non è molto, ma è già qualcosa, qualcosa che viene dal mio lavoro e non dall’elemosina.”
Nel gruppo si impara a lavorare a maglia e si vendono i prodotti del proprio lavoro: berretti e sciarpe di diverse taglie e colori, che in parte verranno restituiti al progetto per compensare il valore della lana e dei ferri acquistati per avviare l’attività. Sono capi che saranno distribuiti durante l’inverno alle famiglie vulnerabili nelle zone montane ai confini con l’Iran.
Anche Aisha è entrata pian piano nel meccanismo “Tramite le altre donne sto imparando a lavorare. Alle volte vado con loro al mercato, mi spiegano come si fa e come si vende. Sto ancora imparando a lavorare, ma mi dà speranza sapere che posso essere io il cambiamento che aspettavo”.
Si lavora, si parla, si condividono pezzi di storie difficili: l’integrazione a scuola dei propri figli, ma anche questioni più personali, come il lutto e la perdita di alcune persone care. Si impara anche un po’ di turco, necessario per accedere ai servizi più essenziali e per destreggiarsi al mercato.
Tutto questo fino a quel tragico 6 febbraio, quando un devastante terremoto ha scosso tutta l’area. Un terremoto di magnitudo 7.8, come in Turchia non si vedeva dal 1939, con epicentro a pochi chilometri proprio da Gaziantep, in una regione così già duramente colpita dal dramma della guerra e dei rifugiati. Su una popolazione di 2,1 milioni di persone, nella sola provincia di Gaziantep, si contavano all’inizio del 2021 467mila rifugiati siriani, solo tra quelli ufficialmente registrati. Si ritiene che ad oggi il terremoto abbia causato, tra Turchia e Siria, non meno di 53 mila vittime, ma non si sa quante ancora se ne dovranno aggiungere man mano che verranno spalate via le macerie e raggiunte le zone più isolate. Per molti giorni i rottami e i calcinacci hanno restituito persone vive, nonostante il freddo intensissimo. La speranza si è esaurita in fretta e oggi – a un mese dal terremoto – si continuano a contare danni e vittime, mentre non sembra essersi ancora esaurita la lunghissima serie di scosse che hanno continuato questa area già devastata.
Gaziantep è duramente colpita e non è chiaro quante vittime ci siano state in città; quello che è sicuro è che l’edificio nel quale si incontravano le donne per lavorare insieme è stato danneggiato e che una componente del gruppo ha perso la vita sotto le macerie.
Hasna poche settimane prima del terremoto aveva detto: “So che non potrò mantenere i miei figli completamente e che non darò loro la vita che si meritano, ma per me è un sollievo avere una rete di persone che mi sostengono e che mi aiutano a far sì che i miei figli vadano a scuola e che non abbandonino l’educazione per andare a vendere fazzoletti ai semafori o per raccogliere immondizia. Non so dove mi porterà questo progetto economicamente, ma so che sono in un gruppo e che sto partecipando attivamente ad un forte cambiamento per la mia famiglia.”
Ora le scosse devastanti hanno interrotto il faticoso percorso di Aisha, Hasna, Faiza e delle altre. Tuttavia, le relazioni, quelle, non sono crollate con il terremoto. E saranno quelle relazioni, più di qualsiasi altra cosa, che aiuteranno Aisha e le altre a ricostruire ancora una volta.