Guinea Conaky – Le risposte concrete ai bisogni primari dei più vulnerabili
di Federico Mazzarella, Caritas Italiana.
Come ovunque nel mondo, anche la Guinea Conakry ha dovuto rapidamente modificare il suo quotidiano per iniziare a convivere con il Covid19. Il paese è alle prese con il virus dal 13 marzo, da quando un cittadino belga, residente in Guinea e di ritorno da Bruxelles dopo una vacanza in Francia, ha accusato i primi sintomi ed infine ricevuto la temuta diagnosi. Il virus non stava arrivando in un paese qualunque: la Guinea è uno dei luoghi più poveri del mondo e, soprattutto, il paese che nel suo recente passato ha vissuto l’Ebola. Così, fra paure vecchie, nuove e rinnovate, il paese si è preparato ad una nuova sfida.
Nuove paure, vecchie debolezze
I sistemi sanitari dei paesi africani sono quasi tutti impreparati ad una pandemia delle proporzioni di quella del Covid19, come esplicitamente segnalato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha da subito lanciato l’allarme per tutto il continente. Fra i più deboli e inefficaci, il sistema sanitario guineano ha assistito con inquietudine all’accelerazione del contagio. I casi registrati nel paese fino a luglio sono meno di 7.000, e poche decine le vittime. Pochi casi, troppo pochi: il dato non offre neanche una lontana idea di quanto sta accadendo in realtà e quanto potrebbe accadere ancora a lungo. «I kit per eseguire i test sono sempre in esaurimento, e fuori dalla capitale spesso neanche li hanno. I test non si eseguono: non sappiamo quanti casi ci sono, nessuno può saperlo», informa asciutto l’animatore di un’organizzazione umanitaria nella capitale. Il paese non ha un sistema di controllo e analisi dei dati medici sul territorio: quella in corso rischia di essere una catastrofe silenziosa. Con un sistema sanitario in crisi cronica, un’emergenza si è aggiunta all’altra. Ci si rincuora con speranze, nessuna con vero fondamento scientifico: gli africani sono fisicamente più forti, passano la vita combattendo la malaria; questo virus colpisce gli anziani e la Guinea ha una popolazione giovanissima (il 41,2% è sotto i 14 anni, il 60,52% sotto ai 24, mentre solo il 3,9% è sopra i 65 anni); ancora, questo virus non ama il caldo e la Guinea ha un clima tropicale. Insomma, si spera nel meglio, ma ci si prepara al peggio.
In Guinea le crisi si incontrano e aggravano a vicenda: 576 donne su 100 mila e 53 bambini su mille muoiono durante il parto, e solo il 34,1% della popolazione ha accesso a servizi igienici. Lunga la lista delle pandemie endemiche: malaria, dengue, tubercolosi, colera, diarree, tifo, epatiti, meningite. L’abitudine di recarsi all’ospedale, in un paese con 0,3 posti letto ogni mille abitanti, non è radicata: la sanità è quasi tutta a pagamento, fra le spese più onerose per le famiglie, ma raramente è di buona qualità. Quando lo è, si tratta di sanità privata, ancor più cara. Gli ospedali sono pochi, i farmaci sono da comprare privatamente e portare in ospedale, i trasporti – prima e dopo la degenza – sono a pagamento. Nessuno con un po’ di febbre e tosse penserebbe di recarsi all’ospedale: i malati di Covid19 che ci vanno, lo fanno per l’urgente bisogno di un ossigeno che non trovano.
Il Covid19 porta allo scoperto problemi ben più datati e strutturali. Soprattutto, la grande debolezza della sanità locale riguarda le risorse umane. Le mascherine si possono comprare, i kit distribuire, e – come i cinesi hanno insegnato – anche gli ospedali si possono tiare su in 10 giorni: quello che non si improvvisa sono medici preparati e abbastanza numerosi da far fronte alle urgenze in ogni loro fase, e la Guinea non ha più di 0,7 medici ogni mille abitanti.
Misure severe, difficoltà inevitabili
In questo quadro, molte sono le misure che il governo ha applicato con severità, laddove possibile: dal 13 marzo è stato decretato il coprifuoco notturno in tutto il paese, sono stati chiusi i mercati dopo le 16, vietate le concentrazioni di più di 100 persone, chiusi gli spazi aerei, chiusi luoghi di culto e scuole, vietati gli eventi pubblici, ridotti gli orari di lavoro, iniziata un’inedita pulizia straordinaria delle zone periferiche della città. Sono stati anche messi in funzione ospedali in disuso, o ancora in costruzione, per isolare i malati ordinari dai Covid19. La capitale fu temporaneamente isolata: il grande incubo, infatti, era che l’infezione si propagasse nei quartieri poveri della capitale Conakry (2 milioni abitanti, tre quarti dei quali in quartieri privi di servizi). L’ambiente ideale per la diffusione di un patogeno: qui le precarie condizioni igieniche e abitative, le strade e le case piccole e sovraffollate, le modalità di trasporto in comune in taxi sovrautilizzati, oltre all’impossibile smaltimento di rifiuti e acque nere, non consentono difesa una volta iniziata la propagazione. L’unica possibilità era agire d’anticipo.
Misure efficaci, oggi in parte alleggerite e normalizzate. Le mascherine sono obbligatorie come in Italia, ma un’applicazione del lockdown all’europea in Africa Occidentale non è possibile: viaggi e spostamenti in una società subsahariana sono una necessità vitale per ogni attività. I guineani e le loro città vivono di commercio, imprescindibile tanto per clienti e famiglie quanto per i venditori, che se non lavorano non hanno di che mangiare entro la stessa giornata. Non poter entrare o uscire da una città o un villaggio vuol dire paralizzare un polmone commerciale ramificato e legato a un complesso rapporto di interdipendenza con il suo contesto regionale, oltre che rischiare di esaurire una vena economica forse in modo permanente. La capacità di tenuta di una società complessa a misure di restrizione prolungate era limitata. Inoltre, il popolo guineano vive di contatti fisici vivificanti e simbolici, che vanno dagli eventi pubblici alle dense unità abitative: ciò che in Europa può sembrare faticoso e sfibrante, come stare settimane chiusi in casa, per un guineano è del tutto inconcepibile. La vita in Guinea (affettiva, lavorativa, sociale) si svolge all’esterno, in spazi aperti: l’ambiente domestico, per la metà dei casi privo d’acqua corrente e di elettricità, serve giusto per dormire, nelle zone rurali anche in dieci in una stanza. Se si sta in casa intere giornate, è solo perché si è gravemente malati.
Difendersi giocando d’anticipo
«Siamo abituati alle epidemie, siamo il paese dell’Ebola. Anche se forse questa volta è diverso», riflette un medico della regione forestale, nel sud del paese, ricordando gli sforzi fatti da lui e dai suoi colleghi in prima linea pochi anni fa. Ricorda che l’Ebola era ben più letale, con un tasso di mortalità d’oltre il 50%, ma difendersi era in realtà più facile, evitando i contatti fisici con i malati: il Coronavirus invece si diffonde per via aerea e per mezzo di vettori asintomatici. Una minaccia meno letale, ma più difficile da combattere.
All’apparire di Covid19, il pensiero di tutti in Guinea è corso all’Ebola fin dal primo istante. Tutti ricordano che i guineani nel 2014 e 2015 hanno vissuto una delle peggiori epidemie che l’Africa ricordi in epoche recenti, e questo ha lasciato in loro conseguenze psicologiche evidenti. Ben 2.543 guineani morirono e almeno 3.814 furono contagiati in 20 mesi; per settimane il paese fu percorso da un’autentica psicosi, che di fatto interruppe la vita familiare, economica e sociale, con danni all’economia difficilmente calcolabili, e con interi villaggi che sparirono letteralmente. Un incubo che nessuno vuole rivivere, accompagnato da una serie di errori che nessuno vuole ripetere: fra tutti, i danni dell’incredulità, del ritardo, della scarsa prevenzione. Così in Guinea è bastato parlare di virus che, da subito, in luoghi pubblici, di culto, persino in case private, avevano già recuperato gli strumenti di igiene di pochi anni prima, soprattutto rubinetti di plastica con acqua disinfettata. In nessuna farmacia mancavano gel e disinfettanti, e fin dall’inizio in pochi tendevano la mano per salutare.
La catastrofe di Ebola, insomma, non è accaduta invano. I guineani in media oggi sanno come difendersi. «Si vince solo giocando d’anticipo. Ora come allora, prevenzione e sensibilizzazione sono l’unica possibilità», assicura il direttore della Caritas diocesana di N’Zérékoré, alla frontiera con la Liberia. La popolazione è ricettiva, persino impaziente di ricevere consigli e attrezzature: non sembra manifestarsi l’irrazionale scetticismo che accompagnò l’Ebola nelle sue prime fasi e che fece perdere tempo prezioso, fantasticando di complotti internazionali o di untori stranieri. Il problema è oggi di tutt’altra natura: «Il vero paradosso è che sappiamo bene cosa dobbiamo fare, ma spesso non possiamo farlo: non abbiamo i mezzi». Nel 2015 l’Ebola colse la Guinea impreparata, ma una volta compresi il pericolo e la dimensione del dramma molti furono gli sforzi internazionali, dall’Europa e dall’America, per sostenere la popolazione e lo stato. «Oggi la situazione più critica e preoccupante la si vede proprio nei paesi europei che più ci aiutarono allora. Anche per loro è stato difficile persino difendere sé stessi, e tanto più lo è sostenere noi in questa fase. Stiamo facendo molti sforzi per cavarcela da soli con i nostri mezzi, ma sappiamo che non basterà».
Impatto serio sull’economia
La crisi sanitaria non è l’unico problema: il virus ha fatto gravi danni a livello sociale e economico. Le privazioni legate alla sospensione delle attività economiche su larga scala impongono infatti sforzi d’assistenza importanti.
L’impatto è stato forte fin dai primi giorni, quando i guadagni delle famiglie legati al commercio, soprattutto piccolo e al dettaglio, si sono sostanzialmente interrotti. Anche l’attività agricola, che impiega il 76% della popolazione nel paese, se priva di sbocchi commerciali per troppo tempo rischia di subire contraccolpi pesanti e potenzialmente permanenti. Il popolo guineano per sopravvivere conta solo su sé stesso e sulla forza della rete sociale e familiare, che rafforza continuamente. Non c’è un welfare vero e proprio; ogni bene e sevizio, anche sanitario, è a pagamento, non solo quelli legati al Covid19. Gli anziani, più a rischio per ogni malattia, non hanno una pensione bastante per l’autosostentamento, mentre le casse pubbliche di previdenza sociale sono deboli e i risparmi privati, in un’economia di sussistenza, sono esigui. Si conta per tutto su parenti e figli, per questo numerosi, e se l’economia non gira per produrre quotidianamente una minima massa critica di benefici, gli effetti non tardano a farsi sentire. Ma non sono da sottovalutare neanche i rischi di danni sociali sul medio periodo, come l’aumento della migrazione clandestina, se i giovani non trovano un minimo guadagno per troppo tempo, cosi come l’incremento del traffico di esseri umani anche per la vendita di organi, o lo sfruttamento sessuale e i matrimoni precoci per le giovani donne, ridotte nei casi più disperati a fonte dell’unico reddito familiare.
Nonostante le potenzialità del settore agricolo, la Guinea non ha autosufficienza alimentare, costretta ad importare quasi tutto il riso necessario per il consumo interno. L’emergenza ha rallentato le catene di distribuzione, nazionali ed internazionali: le derrate hanno subito una brusca riduzione in ragione della chiusura delle frontiere, mentre le difficoltà di spostarsi hanno ridotto la distribuzione nelle regioni periferiche. La scarsità del prodotto ha determinato anche fenomeni speculativi e occasionali penurie. La chiusura delle scuole, dove grazie ad annosi sforzi governativi ed umanitari la mensa scolastica è solitamente garantita, ha ridotto anche l’apporto alimentare per l’infanzia. Le categorie più colpite sono i neonati e i bambini, gli anziani in situazione di dipendenza, disabili fisici o mentali nell’impossibilità di lavorare, donne incinta in allattamento, malati di HIV ed altri malati cronici impossibilitati a lavorare, vedove e donne vittime di abbandono.
La Guinea, peraltro, teme di essere investita da una crisi seria anche sul lungo periodo: come il resto del mondo, ma in misura maggiore. La crescita del Pil, stimata al 6% per il 2020 prima della crisi del virus, non supererà l’1% secondo le più ottimistiche aspettative. L’inflazione è aumentata, anche per beni essenziali, mentre le restrizioni agli spostamenti affliggeranno molto il già debole settore turistico, e la contrazione delle attività economiche provocherà una netta riduzione delle entrate fiscali, colpendo le già scarse performance dei servizi pubblici. La dipendenza del paese dall’estero è e resterà profonda, tanto sul versante delle importazioni che su quello delle esportazioni. La brusca contrazione della domanda di bauxite (il 94% della quale è destinata a una Cina oggi in affanno), che rappresenta il 91% del totale dell’export guineano, si è già manifestata. Sul medio e lungo periodo, i contraccolpi internazionali non potranno che aggravarsi: il rallentamento delle economie europee e americana provocherà una riduzione della domanda di prodotti dalla Cina, fabbrica del mondo, e la conseguente contrazione della domanda dalla Cina nei confronti dei suoi numerosi satelliti, soprattutto paesi come la Guinea.
L’impegno di Caritas Guinea
Il progetto proposto come parte della campagna fa parte delle attività di Caritas Guinea – OCPH. Fin dalle prime fasi dell’epidemia, la Caritas nazionale ha reagito mettendo a frutto l’esperienza delle diverse urgenze gestite negli ultimi anni, soprattutto l’Ebola. Nella Capitale Conakry, ma anche a N’Zérékoré e nelle periferie, si sono svolte diverse sessioni di sensibilizzazione in quartieri e villaggi, di formazione a norme igieniche elementari, di distribuzione di kit sanitari e rubinetti per acqua disinfettata. Un’esperienza ormai collaudata, messa al servizio delle vittime potenziali di una nuova emergenza. Occorre inoltre accompagnare queste iniziative con la distribuzione di sacchi di riso per far fronte al rischio fame o malnutrizione di fasce della popolazione già in grave difficoltà in periodo pre-crisi, ed ora maggiormente a rischio impoverimento.