Rispondere alla fame: il ruolo della giustizia fiscale
di Massimo Pallottino, Caritas Italiana
Cosa c’entrano i progetti della Campagna ‘Dacci Oggi il Nostro Pane Quotidiano’ con il G7 che si è chiuso pochi giorni fa nel Regno Unito?
Quando i cosiddetti “Grandi del mondo” si riuniscono, sembra sempre che le loro deliberazioni siano troppo elevate e complesse perché possano divenire elemento di dibattito tra persone comuni, quelle che si mobilitano per fornire un sostegno, anche limitato, ma concreto alle comunità del Pianeta che sono state pesantemente colpite dalla pandemia. Sembra di essere su due piani diversi: da una parte i ‘massimi sistemi’ senza grandi valenze pratiche; dall’altra la mobilitazione immediata, semplice e reale anche se magari di ambizione limitata.
L’ultimo Rapporto Globale sulle Crisi Alimentari[1] in the World stima che nel 2020 in 55 Stati e territori, oggetto di analisi di dettaglio, si sono verificate delle crisi alimentari e più di 155 milioni di persone si sono ritrovati in una situazione di crisi alimentare, anche estrema. Il numero di affamati risulta più elevato in Asia, ma l’Africa è in forte crescita.
In tutto il Pianeta, prevede il Rapporto, la pandemia provocata dal COVID-19 potrebbe aver portato alla fame cronica oltre 130 milioni di persone in più rispetto al 2020. Si tratta di un’analisi parziale, utile a stimare le tendenze, ma che esclude paesi come l’India, il Pakistan, il Brasile.
Il numero degli affamati in tutto il mondo è molto più alto, e nell’attesa di dati globali si può trarre qualche conclusione su due elementi: il primo è che i conflitti rappresentano la causa singola più importante dell’aggravamento delle condizioni di fame di molte popolazioni. Basterebbe l’adesione generalizzata al ‘cessate il fuoco’ globale, invocato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Guterres, per dare un contributo fondamentale alla lotta contro la fame. Il secondo elemento è il fattore che ha pesato fortemente su tutto il Pianeta: la pandemia e le reazioni a questa, in entrambi i casi hanno colpito più duramente proprio i più poveri e i più vulnerabili, aumentando anche, come è ormai ampiamente riconosciuto, la forbice delle diseguaglianze.
Tuttavia, secondo l’ILO, prima della pandemia, solo il 29% della popolazione mondiale era coperta dalle garanzie sociali minime richieste dalle Nazioni Unite, mentre il 55% era senza alcuna forma di protezione sociale ed il 16 % aveva solo una protezione parziale.
La domanda che ci dobbiamo porre è la seguente: chi ha la responsabilità di rispondere in modo adeguato alla pandemia? e ancora specificatamente che dovrebbe adoperarsi per una società più resiliente, dove eventi come la pandemia non scarichino il loro peso di chi già vive condizioni di vulnerabilità e marginalizzazione?
Le attività di cooperazione e di solidarietà internazionale contribuiscono spesso a raggiungere le comunità più periferiche, forse ancora di più contribuiscono a sollevare un velo di indifferenza sulle loro condizioni e sui meccanismi sistemici che causano e riproducono la povertà. Il ruolo della cooperazione e dei progetti, volti allo sviluppo umano, sono volti soprattutto a rompere il muro dell’indifferenza e ad innescare processi di cambiamento là ove si trovano le comunità, per renderli realmente protagonisti. Tuttavia, si ha anche il ruolo di pungolo delle istituzioni pubbliche, che hanno la responsabilità di assicurare il minimo di diritti che rendono reale il principio del rispetto della dignità umana.
E qui torniamo al G7. Quali risorse possono essere messe in campo come risposta concreta alla pandemia, alla necessità di costruire società più resilienti ed accoglienti? Si tratta di aumentare il volume della beneficienza, degli aiuti, dell’accoglienza? Come ammoniscono i documenti del Concilio “non sia dato per carità ciò che è dovuto per giustizia”. La giustizia è far pagare le tasse a chi può farlo in misura, come recita la nostra Costituzione, proporzionale, vale a dire crescente al crescere della capacità contributiva. È il principio di ovvia equità: chi ha di più, ed è stato beneficiato dal sistema economico corrente, ha il dovere di sostenere meccanismi di redistribuzione e di protezione.
È ciò che a livello internazionale non avviene. Il recente vertice del G7 ha salutato come rivoluzionario un accordo sulla tassazione delle imprese multinazionali, che probabilmente rappresenta soltanto un piccolo anche se importante passaggio in una questione assai controversa. È possibile che le grandi società, quelle che si sono maggiormente avvantaggiate durante la pandemia, paghino in tasse meno di un piccolo artigiano o di un impiegato? Questa è la realtà, frutto di anni di sconsiderata competizione fiscale, che ha generato la presenza, in seno alla stessa Europa, dei veri e propri paradisi fiscali, che rendono possibile una scandalosa e massiccia elusione fiscale globale.
Se tutti fossero chiamati a pagare un giusto livello di contribuzione fiscale, sarebbe possibile rafforzare i sistemi di protezione sociale, sarebbe possibile assicurare alle persone fragili e vulnerabili quel livello di servizi non come frutto della benevolenza di qualcuno, ma come risultato di una configurazione basata sulla giustizia. Il 15% di tassazione globale, su cui il G7 ha trovato un accordo, è inferiore al pur minimale 21% che era stato proposto da Biden: è la prima volta che un tale accordo viene discusso, ci si può augurare che non sia l’ultima, perché in questa forma il rischio è che ancora una volta non si offrano soluzioni efficaci[2].
[1] FSIN & Global Network Against Food Crises. (2021). Global Report on Food Crisis—2021. http://https://www.fsinplatform.org/sites/default/files/resources/ files/GRFC2021.pdf
[2][2] https://www.eticaeconomia.it/tremate-multinazionali-o-forse-no/